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Molte targhe semiologighe sono assegnate, e incistate nel senso in-sensato
e sensuale del segno oggettivo, oggettuale nella sua segnica matericità.
La parola si fa marmo. Il marmo si fa polimorfica significazione sotto
i colpi sicuri, secchi, irripetibili dello scultore (lo scultore non
può sbagliare e correggere). La figura è cavata dal marmo,
è vero: ma il marmo contiene infinite figure. La dominante figura
dell'accumulazione non è caotica, secondo la maniera dello stream
of consciousness, bensì canonica secondo un canone di conseguenzialità
concettuale: lo sfrego graffia, trapassa, diverge, perciò simbolizza,
perciò contrassegna, intacca affonda, perciò dà
prova di un carattere, dichiara un indizio, insegue un limite spiando
sospetti: perciò del dramma non plateale del sospetto, sigilla
la cicatrice che diviene grado di misura e marchio finale. Ma non c'è
fine, poiché il marchio finale è già un altro segno.
E un altro segno si presta alla sequela di quelle altre infinite figure
che stanno da sempre dentro il marmo.
Sono
epifonemi logici ma non sentenziosi. Malgrado il loro valore nominale.
Non c'è metafora, né allegoria, in quel segno, che di
volta in volta, secondo il canone logico è quel che è.
Né più né meno.E un po' più in là,
assai più e assai meno. Fra emblema e cicatrice, tacca e prova
di un carattere. Non c'è nemmeno allusione, in quanto la spia
e il sospetto si inseriscono in un processo di consapevole ricerca.
Si potrebbe affermare che non c'è ambiguità. Tuttavia
nel senso linguistico del termine non nel senso poetico del termine,
poiché l'ambiguità della poesia è una dinamica
- proprio come qui - conseguenziale. Questa retta conseguenzialità
evita l'anacoluto - altra destrutturazione tipica della poesia. Ma istituisce
una concettuale anadiplosi, in quanto di ogni emblematica significazione
promuove una sorta di raddoppio di senso. E l'émblema è
restituito al suo primigenio significato di inserzione. Ogni conseguente
si inserisce in ciascuna precedente definizione. Potremmo affermare
l'appartenenza ad una serie di modelli ad incastro. Uno sviluppo catenario
delle significazioni di un medesimo oggetto - in questo caso il segno
che ho individuato non casualmente, in quanto oggetto degli oggetti.
Una
pedante trattazione, quindi? Straordinariamente non è così.
Questa salmodiante (seppur non cantabile) conseguenzialità riporta,
compromessa nella lucida visionarietà delle cose eventuali (degli
eventi), all'oidè del tràgos . Al canto dei capri, origine
della tragedia. Il canto della tragedia non è la cantabilità
aedica ( che così spesso, a proposito o a sproposito attribuiamo
alla poesia), è il grido silente ma ineludibile dello strazio
vitale. Nella poesia così apparentemente asettica di Carla Paolini
la dominante logica non è scientifica o religiosa, è tragicamente
scettica: l'ineluttabilità del destino umano. Che trova nella
parola la sua espressione, il suo marchio come meta finale. Tragicamente
ripetibile. E' l'istanza della inesorabilità bio-logica.
Bastino
testimonianze come la poesia Passione che prediletta dall'impeto / ambisce
a citazioni fra tormenti e bramosie......//...malia del piacere sofferto
/ colonna di furori // architettura d'azzardo squilibrata dalla pena.
E per una concezione di poetica e di poesia in generale si raccomanda
di leggere attentamente e attentamente meditare la composizione Forma,
in quel passaggio dalla rappresentazione alla concettualità che
è il fondamento dell'arte: Percepita in configurazione di sembianza...//...presenza
/ spuntata sulla cuspide dei chiarori / parvenza disegnata per apparizione
/ versata a calco di sua fattura / presa in stato di grazia / casualmente
toccata dalle spine dell'asterisco. Ecco fra i molti altri stimoli,
l'autoreferenza formale (versata a calco di sua fattura), e la constatazione
mallarmeana (casualmente toccata....) Si potrebbe parlare anche di una
rigorosa lucidità epistemologica.
In
un passo della precedente raccolta di Carla Paolini (Ai cancelli del
flusso, Campanotto 2001) si dà atto dell'odore dolciastro/ di
materia in decomposizione avanzata….Si tratta dei resti, dei residui
della metamorfosi vita-morte-vita, che provocano insieme nascita e consunzione
nella fluenza dell'essere. Nella forma fluens del poièin. Del
fare come essere. Del divenire come circolarità. E quindi, paradossalmente
e tragicamente, nel divenire come statiticità.
Marcel
Duchamp nella metamorfosi della sua inazione citava Eliot: "L'artista
sarà tanto più perfetto quanto più in lui saranno
separati l'uomo che soffre e la mente che crea; e tanto più perfettamente
la mente assimilerà e rielaborerà le passioni che sono
il suo elemento". Sono convinto - e di qui la mia fascinazione
nel leggere questi testi - che Carla Paolini sia ormai sulla via di
questa concettuale perfezione. Se mai perfezione è concessa alla
innovativa dismisura del fare
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